lunedì 15 febbraio 2016

I GAROFANI DI TZIU DOMINIGHEDDU

Talvolta capita che durante il pranzo, che solitamente viene consumato con la tv spenta, mia madre, ispirata da quali motivi, inizi a raccontare gustosi fatti e vicende della sua famiglia e del suo paese (Villamar). Di solito mi piace annotare i suoi ricordi ed i nomi in un quadernetto, ma i protagonisti della storia di oggi, sono troppo gentili per non essere ricordati pubblicamente in un mondo, come quello di oggi, dove abbonda la miseria umana. Il racconto allora è il seguente: mio nonno materno, Giuannicu Mura, che era rimasto orfano fin da bambino prima del padre e poi della madre, aveva conosciuto da sempre, una coppia di “servi” o meglio di fedeli collaboratori che si chiamavano tziu Dominigheddu e tzia Dominighedda. Lui era un ottimo contadino e lei aiutava inizialmente mia bisnonna e successivamente, alla precoce morte di quest’ultima, aveva gestito la casa di famiglia aiutando le sorelle di mio nonno che erano adolescenti.
Tziu Dominigheddu e tzia Dominighedda, vivevano in una piccola casa, con un piccolo cortile, nel quartiere di San Giuseppe a Villamar: non avevano avuto figli e così continuarono malgrado una salute malferma e l’età avanzata e non usufruendo di nessuna pensione, a lavorare fino alla loro morte (avvenuta per entrambi, a breve distanza temporale) nel limite delle loro possibilità, presso la famiglia di mio nonno. Un mio parente “malvagio” di cui non pubblico il nome, quotidianamente, ricordava a mio nonno, che ormai quei due vecchietti, seppur simpatici, erano dei “rami secchi” da tagliare, in quanto ormai “improduttivi” e ne chiedeva pertanto in maniera ossessiva “il licenziamento”: ma nonno Giuannicu, sorridendo, rispondeva sempre che era ingiusto “gettare” chi nella vita ti aveva sempre dimostrato devozione, rispetto e lealtà nel lavoro.
Tziu Dominigheddu era una brava persona, dotata di una rara educazione e sensibilità ed era molto gentile: ogni giorno prima di iniziare la sua dura giornata di lavoro nei campi, portava delle rose o dei garofani che prendeva dal suo roseto e le consegnava a mia nonna che lui con rispetto chiamava “donna” Lauretta o a mia madre che chiamava “signorina” Maria Luigia. Tzia Dominighedda, invece trascorse gli ultimi anni della sua vita, svolgendo soprattutto la funzione di “istruttrice” per le giovani “collaboratrici” della famiglia. Oggi gli anziani, secondo mia madre, stanno molto peggio di allora, soprattutto se non hanno una pensione: vengono abbandonati da tutti. La riconoscenza non è di questo mondo, che sfrutta tutto e tutti.

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